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La Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane, ha accolto, lo scorso 4 aprile 2024, in un’Aula Magna piena di studenti della scuola secondaria ‘La Salle Roma’ (12-13 anni) Lea Polgar, attivissima signora ebrea, che dedica la sua vita ad incontrare giovani e studenti per raccontare loro l’incredibile e sconvolgente esperienza delle leggi razziali e della discriminazione subita durante il ventennio fascista in Italia e la Seconda Guerra Mondiale. “Studiate per capire, imparare e non farvi manipolare. Solamente così eviterete il ripresentarsi di eventi tanto tragici ed ingiusti”. Questa è stata la sua premessa.

Inizia poi il suo commovente e vivido racconto di una bambina di appena 5 anni con una bellissima vita a Fiume: una bella casa, un papà avvocato di successo, una mamma diplomata in pianoforte, due fratelli, e due nonne che la viziano con torte alle fragole. “Ero una bambina felice – ricorda Lea – quasi commuovendosi – con una vita serena e tranquilla”.

“Poi un giorno, mio padre disse a mamma che non poteva più entrare in tribunale. Da li cambiò tutto. Eravamo diventati invisibili, non ci salutava più nessuno. I bambini non giocavano più con noi solo perché eravamo ebrei”. Un giorno un ufficiale fascista comunica alla madre di Lea di lasciare la casa perché la vuole prendere qualcun altro. “Siamo stati buttati fuori di casa – continua Lea.

Così partimmo e arrivammo a Roma nel settembre del ‘39. Come ebrei non potevamo vivere in centro, in una bella casa. Prendemmo una villetta, brutta, ma almeno eravamo tutti insieme. Frequentavamo la scuola ebraica, il pomeriggio, in orari differenti da quelli in cui frequentavano gli altri bambini. Entravamo persino da una entrata secondaria”. Anche i suoi coetanei, per quanto bambini, erano stati a tal punto indottrinati dalla ingiusta politica antirazziale da rivolgere a Lea domande assurde come chiedere se gli Ebrei avessero la coda.

“La cosa che mi sconvolse di più fu il fatto che le nonne non mi viziavano più e non erano più gioiose come prima, erano diventate molto serie, piangevano. Mi insegnarono a stirare e a pulire la casa, a 5 anni. Mi spiegarono che i tempi erano cambiati e che avrei dovuto imparare a fare tutto”. Solo dopo anni Lea scoprì che le bambine ebree, per sfuggire all’arresto o alla persecuzione, avrebbero potuto essere inviate in Gran Bretagna a lavorare come domestiche presso famiglie facoltose. In realtà quando accadde, molte di loro non tornarono mai più in Italia o ebbero un destino molto meno fortunato di quello che potessero sperare.

Nonostante i tempi duri che la famiglia Polgar, come tantissime altre famiglie ebree, all’epoca si trovò ad affrontare, conosce anche la solidarietà e la giustizia. “Ci siamo salvati grazie alla generosità di tante persone, colti, ignoranti, ricchi e poveri”. Molti sapevano che ci stavamo nascondendo e tacquero a costo della propria vita. Una consapevolezza che la sig.ra Lea ripete più volte e per la quale ringrazia tantissimo. Addirittura un amico di famiglia, Giovanni Perna, funzionario di banca, avverte i Polgar che presto avrebbero deportato gli ebrei. Così Perna procura documenti falsi per tutti i componenti della famiglia e trova loro un nascondiglio.

“Fu così che cambiammo identità e un giorno ci separammo. Avevo 10 anni, nonna mi diede un sacchetto, fatto sacrificando un suo paio di guanti di pelle. Dentro c’era qualche pietra preziosa da rivendere nel caso avessi avuto bisogno di denaro e cibo. Mi portarono a casa di Aurelio Mistruzzi. Aurelio e sua moglie Melania, lui friulano, scultore e incisore del Vaticano, lei ebrea viennese, aprirono le porte della loro casa romana a Lea, per nasconderla. “Non potevo neanche affacciarmi alle finestre, dovevo camminare piano, non fare rumore e nascondermi quando mi facevano cenno”. I coniugi Mistruzzi sono stati inseriti nella lista dei Giusti tra le Nazioni.

“Lui e sua moglie erano due persone straordinarie, mi nascosero e furono come due genitori per me […]. Poi un giorno mamma mi venne a prendere, nel novembre del ’43, perché avevano denunciato il resto della mia famiglia che si nascondeva altrove. La gente si arricchiva denunciando gli ebrei, con 5,000 lire si poteva comprare casa”. I Polgar riescono a sfuggire ancora la deportazione, perché il loro amico Giovanni Perna li manda in un altro appartamento in un palazzo dove possono contare sulla complicità del portiere. Da qui Lea verrà nascosta ancora in un collegio di suore, vicino al quale c’era un comando tedesco, “i soldati la domenica venivano a messa, per cui avevo imparato a recitare tutte le preghiere cattoliche. Ho persino fatto la Prima Comunione e la Cresima!”. La vita in collegio è difficile, Lea di notte si dispera, pensando di non ritrovare più la sua famiglia. Intanto i tedeschi iniziano a battere la ritirata.

Finalmente arriva il momento della liberazione, il 4 e 5 giugno 1944 le truppe americane entrano a Roma e liberano la città. I Polgar si riuniscono, erano tutti vivi: “Papà ci disse che eravamo adesso degli italiani liberi. Mio padre riaprì lo studio, ebbe la sua rivincita”.
“La parte della famiglia, rimasta a Fiume invece – si commuove Lea – venne deportata: tutti uccisi ad Auschwitz”. Lea lo ha scoperto soltanto pochi anni fa.

Al termine del racconto i ragazzi presenti sono stati invitati a fare domande e ad interagire con Lea. Un fiume di richieste, commozione, curiosità, di adolescenti fortunati che non hanno conosciuto un’epoca tanto spietata ed ingiusta. “Siate grati – ripete più volte la signora – recuperate il sentimento della gratitudine verso la vita e verso il prossimo. Solo così potrete costruire un mondo migliore”.